eMail
Menu
logo

Geopolitica Da Pearl Harbor al rischio di una guerra con la Russia: ipotesi di reazione

More in this section

7 dicembre 1941
7 dicembre 1941

L’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 è entrato nella storia come l’evento che spezzò di colpo l’isolazionismo americano, trascinando un’opinione pubblica inizialmente riluttante in un conflitto mondiale. Oggi, di fronte alla guerra in Ucraina e ai timori di un’escalation tra NATO e Russia, le popolazioni europee, in particolare quella italiana, mostrano un atteggiamento in parte analogo: prevale la cautela e la contrarietà a un coinvolgimento diretto, ma con la consapevolezza inquieta che un evento traumatico potrebbe capovolgere improvvisamente questo sentimento collettivo. Così come Pearl Harbor segnò un punto di non ritorno, proviamo ad analizzare come nell'Europa di oggi uno shock bellico possa repentinamente mutare l’opinione pubblica, senza trascurare la complessa situazione geopolitica attuale: dal ruolo di Stati Uniti, Russia e Cina alle dinamiche interne della NATO, con uno sguardo disincantato, critico e, ci tengo a precisarlo, libero da propagande.

1941: l’America prima di Pearl Harbor: isolazionismo e dibattito

Negli anni immediatamente precedenti all’attacco di Pearl Harbor, gli Stati Uniti erano attraversati da un forte sentimento isolazionista. Reduce dal trauma della Prima guerra mondiale e del fallimento delle speranze wilsoniane di una pace duratura, la società americana degli anni ’30 rifiutava decisamente l’idea di immischiarsi in un altro conflitto oltreoceano. Nonostante l’ascesa dei regimi totalitari in Europa e l’aggressività del Giappone in Asia, la maggioranza degli americani riteneva che la sicurezza nazionale fosse meglio garantita stando fuori dalle guerre altrui e badando ai problemi interni, soprattutto durante la Grande Depressione. Emblematiche furono le Leggi sulla Neutralità varate dal Congresso a partire dal 1935, che vietavano vendite di armi e prestiti ai Paesi belligeranti, nel tentativo di “evitare future implicazioni in guerre straniere”.

Questa tendenza era rappresentata da movimenti come l’America First Committee, sostenuto da personaggi popolari come Charles Lindbergh, che ammonivano: l’America doveva “farsi trovare pronta a combattere chiunque la minacci nell’emisfero occidentale, ma non andare a combattere ogni regime diverso dal nostro”. Dall’altro lato, gli interventisti, una rumorosa minoranza, mettevano in guardia sul pericolo di un’Europa dominata dal nazifascismo: se anche l’Inghilterra fosse caduta, gli Stati Uniti si sarebbero trovati isolati in un mondo ostile. Tuttavia, anche molti interventisti speravano di poter aiutare gli Alleati senza dispiegare truppe americane sul terreno: lo slogan “The Yanks Are Not Coming” (“gli Yankee non verranno [a combattere]”) riassumeva l’idea di sostenere la Gran Bretagna con aiuti materiali per evitare di dover mandare i propri soldati in guerra.

Le rilevazioni dell’epoca confermavano questa riluttanza. Già allo scoppio della Seconda guerra mondiale in Europa, dopo l’invasione della Polonia nel settembre 1939, il 90% degli americani si dichiarava contrario a dichiarare guerra alla Germania a fianco di Francia e Inghilterra. Anche dopo la caduta di Parigi nel 1940 e con Londra sotto le bombe, l’opinione pubblica statunitense restava in maggioranza contraria all’invio di soldati. Un sondaggio Gallup dell’aprile 1941 mostrava che solo il 17% degli americani era favorevole a mandare l’esercito in Europa a difesa della Gran Bretagna, mentre il 79% si opponeva nettamente. Perfino l’idea di fornire supporto aereo o navale diretto era respinta dalla maggioranza: nello stesso sondaggio il 69% bocciava l’invio di piloti americani a combattere in Europa e il 67% era contrario a schierare navi da guerra USA a fianco della Royal Navy. Gli americani, insomma, preferivano aiutare gli Alleati con equipaggiamento e rifornimenti, ma senza “stivali sul terreno” cioè al di fuori di qualsiasi intervento diretto. Indicativo è anche il dibattito sul “Lend-Lease” (Affitti e Prestiti): la legge voluta dal presidente Franklin D. Roosevelt per fornire armamenti agli Alleati fu approvata nel marzo 1941, ma non senza resistenze, e rifletteva l’idea di fare il necessario per evitare che Hitler trionfasse, purché ciò non implicasse entrare formalmente in guerra.

Verso la fine del 1941, alcuni eventi iniziarono a erodere l’intransigenza isolazionista. In settembre, ad esempio, si verificò l’incidente del Greer: un cacciatorpediniere americano (USS Greer) ebbe uno scontro con un U-Boot tedesco nell’Atlantico. Roosevelt reagì ordinando alla Marina USA di scortare i convogli britannici e di aprire il fuoco “a vista” contro unità tedesche in acque controllate dagli Stati Uniti. Questa misura di fatto portava l’America sempre più vicina allo stato di belligeranza non dichiarata. Eppure, anche dopo il caso Greer, il Paese restava diviso. Ad ottobre 1941, alla domanda se fosse giusto modificare la Neutrality Act per consentire a navi mercantili americane di trasportare materiale bellico in Gran Bretagna, gli intervistati risposero “sì” solo in misura del 46%, a fronte del 40% di “no”. Una maggioranza più ampia (il 62%) approvava invece l’ordine di sparare ai sommergibili tedeschi a vista, segno che l’aggressività della Germania iniziava a essere percepita come minaccia diretta. Nel complesso, fino all’autunno del ’41, molti americani sostenevano le politiche di aiuto di Roosevelt verso gli Alleati (il 57% le giudicava “appropriate” o addirittura da intensificare), ma il passo emotivo verso l’accettazione di una guerra vera e propria non era ancora compiuto.

Pearl Harbor: dall'isolazionismo all'interventismo

Tutto cambiò la mattina del 7 dicembre 1941. Il bombardamento di Pearl Harbor da parte dell’aviazione giapponese, un attacco improvviso e devastante alla flotta statunitense nel Pacifico, fu il classico evento traumatico in grado di ribaltare in poche ore anni di dibattiti e titubanze. Il giorno seguente, l’8 dicembre, il Congresso approvò la dichiarazione di guerra al Giappone con un solo voto contrario, e pochi giorni dopo anche alla Germania e all’Italia, sancendo l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale. Come sintetizza efficacemente uno storico, “l’attacco giapponese a Pearl Harbor pose fine al dibattito sull’intervento americano […] L’opinione pubblica, indignata per l’aggressione, appoggiò con entusiasmo lo sforzo bellico. L’isolazionismo non era più un’opzione”. In un attimo, il Paese che fino a pochi mesi prima diceva “no” alla guerra si ritrovò unito e determinato a vincerla.

È difficile sopravvalutare l’impatto psicologico che Pearl Harbor ebbe sul popolo americano. La sensazione di invulnerabilità garantita dagli oceani Atlantico e Pacifico svanì dall’oggi al domani. La guerra non era più una lontana questione europea o asiatica, ma una realtà che aveva colpito le Hawaii e minacciava la stessa costa occidentale degli Stati Uniti. Milioni di cittadini comuni, che magari fino a quel weekend di dicembre seguivano la crisi mondiale con distacco, provarono all’improvviso paura, rabbia e un senso di patriottismo ferito. “Remember Pearl Harbor!” divenne lo slogan che cementò il consenso nazionale: giovani che il giorno prima avrebbero esitato si arruolarono in massa, famiglie intere accettarono razionamenti e sacrifici, l’industria convertì la produzione civile in bellica a un ritmo impensabile solo poco tempo prima.
Benchè in principio isolazionisti, gli americani erano ben consci della loro capacità produttiva e della loro forza bellica, già testate durante la prima guerra mondiale.

Il rovesciamento dell’opinione pubblica fu dunque repentino e totale. Episodi simili, benché in contesti diversi, si sono ripetuti nella storia americana: basti pensare all’effetto dell’11 settembre 2001, quando un attacco a sorpresa sul suolo nazionale (le stragi di New York e Washington) generò un’ondata immediata di sostegno all’azione militare contro il terrorismo, aprendo la strada alle guerre in Afghanistan e in seguito, con dinamiche più controverse, in Iraq. I politologi hanno coniato l’espressione “rally ’round the flag” per descrivere questo fenomeno, in cui un popolo inizialmente diviso o tiepido si stringe compatto attorno alla bandiera e ai leader dopo un attacco esterno. Pearl Harbor fu forse l’esempio più eclatante di rally effect: non solo zittì quasi d’incanto gli isolazionisti, ma convertì il loro stesso argomento (proteggere l’America) nella giustificazione per scendere in guerra. Come notò un commentatore dell’epoca, “il Giappone ha svegliato un gigante addormentato”, trasformando una nazione esitante in una potenza bellica determinata.

Va detto che, a posteriori, non mancarono teorie cospirative e polemiche su Pearl Harbor. Alcuni critici sostennero che il governo Roosevelt avesse provocato i giapponesi (con sanzioni e embargo sul petrolio) sperando in un casus belli, o addirittura che Washington avesse ignorato deliberatamente segnali di allarme per lasciar accadere l’attacco e piegare così la volontà popolare. Tuttavia, non esistono prove conclusive di tali accuse, che restano in gran parte nel campo delle speculazioni. Quel che è certo è che un evento traumatico reale, non certo inventato, fece da catalizzatore per un cambiamento drammatico dell’opinione pubblica.

L’Europa di oggi: esitazione e timori davanti alla guerra in Ucraina

Passiamo ora al presente. Dall’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, l’Europa vive la sua crisi di sicurezza più grave dal 1945. Sebbene il conflitto si svolga (finora) entro i confini ucraini e non coinvolga direttamente i Paesi NATO, l’ombra di una possibile guerra più ampia con la Russia inquieta profondamente le opinioni pubbliche europee. In particolare in Italia, Paese geograficamente distante dal teatro bellico ma membro dell’Alleanza Atlantica, l’atteggiamento collettivo verso l’eventualità di uno scontro diretto con Mosca è improntato a estrema cautela, quando non a scetticismo aperto.
Gli europei non hanno quella incrollabile certezza nel proprio apparato produttivo e militare che permea, a ragione, la società americana. La seconda guerra mondiale è stata devastante e nessun paese in Europa poté affermare di esserne uscito indenne, benchè vincitore.

Nei primi mesi dopo l’attacco russo all’Ucraina, i sondaggi mostrano che la maggioranza degli italiani manteneva una posizione prudente: il 57% degli elettori dichiarava di non schierarsi né con la Russia né con l’Ucraina, mentre circa un terzo parteggiava per Kiev. Questa neutralità relativa, unita comunque a una condanna diffusa dell’aggressione russa, si traduceva in un sostegno limitato alle misure più incisive. Ad esempio, sull’invio di armi alle forze ucraine la società italiana appariva spaccata a metà, senza una maggioranza prevalente: indagini condotte nel 2023 confermano che non esiste un consenso netto in Italia sull’opportunità di fornire armamenti a Kiev. Persino all’interno della coalizione di governo attuale (a guida Fratelli d’Italia), una parte della base elettorale è contraria alle forniture militari, benché il governo Meloni abbia sinora mantenuto la linea filo-NATO tracciata dal precedente esecutivo Draghi.

Le reticenze italiane riflettono sia considerazioni pragmatiche sia fattori storici e culturali. Da un lato c’è il timore tangibile delle conseguenze economiche e di sicurezza: la guerra in Ucraina ha già pesato sull’economia europea con l’aumento dei prezzi energetici e inflazione, e molti cittadini esrpimono il fondato timore che un’escalation potrebbe comportare costi ben più tragici. Dall’altro lato, l’Italia come altre nazioni dell’Europa occidentale ha sviluppato nel secondo dopoguerra un forte sentimento pacifista e una preferenza per la soluzione diplomatica delle crisi. Il ricordo delle devastazioni belliche sul suolo italiano alimenta un’avversione all’idea di un nuovo conflitto generalizzato. Inoltre, storicamente una parte dell’opinione pubblica italiana ha guardato alla Russia con minore ostilità rispetto ai vicini orientali: ancora nel 2015, all'indomani dei fatti di piazza Maidan, un sondaggio internazionale rilevava che solo il 29% degli italiani attribuiva senza esitazioni alla Russia la colpa principale della crisi ucraina, a fronte di un 57% in Polonia. Ciò non significa che gli italiani simpatizzino per l’aggressione di Putin, soprattutto dopo il 2022 la percezione di Mosca è peggiorata drasticamente (il favore verso la Russia è crollato di oltre 50 punti percentuali rispetto al 2020, secondo dati ISPI), ma indica una tradizionale tendenza italiana a diffidare delle logiche da guerra fredda e a cercare una posizione equilibrata.

Un elemento centrale del sentimento pubblico odierno è la paura di una guerra allargata e nucleare. Mentre gli ucraini, vivendo il conflitto sulla propria pelle, paiono paradossalmente aver “normalizzato” il rischio (un sondaggio internazionale del 2023 mostra che Ucraina è tra i Paesi con minore timore percepito di un attacco nucleare), in Europa occidentale il timore dell’arma atomica è tornato ai massimi dai tempi della crisi degli Euromissili negli anni ’80. In Italia in particolare, i rilevamenti indicano un’ansia sopra la media: il nostro Paese risulta tra quelli europei con il più alto livello di paura per la minaccia nucleare, anche in relazione al fatto che il Paese ospita ordigni nucleari stautinitensi distribuiti tra più di un centinaio di basi militari tra USA e Nato. 
Ciò è comprensibile, dato che i leader russi hanno più volte agitato lo spettro di un’eventuale escalation nucleare “se la NATO supererà certe linee rosse”. Questo terrore diffuso funge da potente freno psicologico: finché prevale, l’opinione pubblica accetterà con riluttanza di inviare armi e denaro all’Ucraina, ma traccerà una netta linea di demarcazione sul coinvolgimento diretto di truppe nazionali o sull’estensione della guerra oltre i confini ucraini.

A livello europeo più ampio, la situazione è variegata ma presenta un trend simile. Nei Paesi dell’Est (Polonia, Paesi baltici, Finlandia) l’aggressione russa ha rafforzato sentimenti già fortemente anti-Cremlino, generando un sostegno convinto sia alle sanzioni che all’assistenza militare a Kiev. In quelli dell’Ovest (Germania, Francia, Spagna, oltre all’Italia) si registra invece maggiore esitazione. Un sondaggio del 2015, in piena crisi di Crimea e Donbass, fece scalpore per il basso livello di prontezza degli europei a onorare l’Articolo 5 della NATO: in media solo il 48% dei cittadini in sei grandi Paesi dell’Alleanza si diceva favorevole a usare la forza militare per difendere un alleato attaccato dalla Russia. In Germania la percentuale di contrari superava il 58%, in Francia il 53%; perfino nel Regno Unito i favorevoli non raggiungevano la metà. Gli Stati Uniti e il Canada, per confronto, mostravano maggior prontezza, con oltre il 50% dei cittadini disposti a intervenire. Questo gap tra le du esponde dell'atlantico evidenzia come gli europei occidentali, malgrado facciano parte della più potente alleanza militare del mondo, abbiano interiorizzato una certa ritrosia verso l’uso della forza, frutto forse di decenni di pace nel proprio territorio e in parte di dipendenza dall’ombrello americano, ma ancora più probabilmente memori delle indicibili violenze, delle sofferenze e degli orrori della seconda guerra mondiale.

Dall’inizio della guerra in Ucraina, naturalmente, alcune di queste opinioni si sono evolute. La minaccia concreta ha indotto governi e popoli europei a incrementare le spese per la difesa e a rafforzare la coesione euro-atlantica. Paesi tradizionalmente neutrali come Svezia e Finlandia hanno chiesto di aderire alla NATO (Helsinki è già entrata, Stoccolma è in attesa), segnali di un drastico cambiamento di orientamento pubblico spinti dalla paura per l’aggressività russa. Tuttavia, parallelamente, cresce anche in Europa occidentale un desiderio di pace negoziata: a tre anni dall’inizio del conflitto, i sondaggi indicano che in molti Paesi la maggioranza relativa della popolazione preferirebbe una fine negoziale della guerra anche a costo di concessioni territoriali a Mosca, piuttosto che sostenere l’Ucraina “fino alla vittoria” prolungando le ostilità. Ad esempio, a fine 2024, un’indagine YouGov ha rilevato un netto calo di chi in Francia, Germania, Italia e Spagna propugna il supporto a oltranza a Kiev, mentre è aumentata la quota di chi auspica compromessi per fermare le armi. In Italia solo un terzo circa degli intervistati si schiera apertamente “dalla parte di Kiev” (era oltre la metà all’inizio del conflitto), segno di una crescente stanchezza e preoccupazione per le conseguenze del conflitto. In sintesi, l’opinione pubblica europea sostiene in larga misura l’Ucraina sul piano morale e umanitario, ma non desidera una guerra diretta contro la Russia. L’idea di un confronto militare NATO-Russia evoca scenari da Terza guerra mondiale che la maggioranza dei cittadini reputa catastrofici da ogni punto di vista.

Ipotesi di fattori scatenanti: il peso di un evento traumatico

Eppure, la storia insegna che le opinioni pubbliche possono cambiare improvvisamente quando si verifica un evento traumatico percepito come una minaccia immediata. Pearl Harbor ne fu un esempio lampante. Viene quindi spontaneo chiedersi: potrebbe esistere un “Pearl Harbor europeo” capace di mutare dall’oggi al domani l’atteggiamento dei cittadini verso una guerra con la Russia? E, in uno scenario così teso, quanto è concreta la possibilità che un attore intenzionalmente metta in atto una provocazione o un inganno, una false flag, per scatenare le reazioni volute?

In primo luogo, va compreso il meccanismo psicologico: un attacco diretto contro un Paese o un popolo tende a generare uno shock emotivo collettivo. La paura e l’indignazione possono spingere l’opinione pubblica a invocare dure contromisure, anche quelle che prima ripudiava. È il classico effetto del casus belli: finché la guerra è percepita come facoltativa o lontana, prevale la prudenza; ma se la guerra appare imposta dall’aggressione altrui, allora scatta il riflesso dell’unità nazionale e del contrattacco. Nel contesto attuale, gli europei potrebbero riconsiderare la prospettiva di uno scontro con la Russia se, ad esempio, forze russe colpissero direttamente il territorio NATO uccidendo civili o militari alleati. Un caso quasi accaduto fu l’episodio del missile caduto in Polonia nel novembre 2022: inizialmente si temette fosse un razzo russo finito oltre confine (in realtà si appurò poi che probabilmente era un missile della contraerea ucraina deviato dalla traiettoria). Per alcune ore, l’incidente sollevò il panico: se fosse emersa la responsabilità russa, la Polonia e con essa la NATO avrebbe dovuto considerare l’intervento militare in risposta all’attacco. Fortunatamente, l’allarme rientrò, ma quell’evento mostrò quanto sottile sia la linea che separa la guerra confinata in Ucraina da una guerra su più vasta scala.

Un altro scenario preoccupante riguarda la possibilità di sabotaggi o attentati sul suolo europeo attribuiti a Mosca. Si pensi al misterioso sabotaggio dei gasdotti Nord Stream 1 e 2 nel Mar Baltico (settembre 2022), che ha tagliato le forniture di gas naturale dalla Russia alla Germania. L’esplosione delle pipeline fu inizialmente imputata da molti alla Russia stessa, come gesto estremo di ricatto energetico; altri analisti suggerirono invece l’ipotesi di un’operazione segreta ucraina per mettere Mosca con le spalle al muro, ma soprattutto per separare ancor più definitivamente i paesi europei dalle fonti energetiche russe. Al momento sembra che le evidenze supportino la seconda ipotesi, ma in ogni caso il sabotaggio del Nord Stream sottolinea come ogni incidente può diventare terreno di guerra narrativa e propaganda, con reciproche accuse di false flag. Se domani, per assurdo, avvenisse un grave attentato in una capitale europea, un cyberattacco contro infrastrutture critiche, o un’azione terroristica, basterebbe poco perché le opposte propagande si accusino a vicenda: c’è chi griderebbe al complotto russo e chi, specularmente, insinuerebbe un complotto occidentale per dare la colpa al Cremlino e mobilitare l’opinione pubblica contro di esso. In una situazione già carica di sospetti, un evento shock potrebbe dunque essere sfruttato da una parte o dall’altra per indirizzare le percezioni collettive e giustificare scelte estreme.

Il concetto di “false flag” (falsa bandiera) merita un approfondimento, perché rappresenta esattamente questo: un’operazione concepita da un soggetto A e fatta apparire come compiuta da un soggetto B, allo scopo di creare un pretesto (casus belli) o manipolare l’opinione pubblica. La storia è purtroppo ricca di esempi di false flag utilizzate per scatenare guerre o repressioni. Pochi giorni prima di invadere la Polonia nel 1939, la Germania nazista organizzò il celebre incidente di Gleiwitz: uomini delle SS, travestiti da soldati polacchi, inscenarono un finto attacco contro una stazione radio tedesca al confine. Hitler lo additò come prova dell’“aggressione polacca” e il giorno dopo lanciò l’invasione, presentandola alla propria opinione pubblica e al mondo come una risposta difensiva. La propaganda tedesca riuscì a convincere molti tedeschi che l’uso della forza fosse giustificato, manipolando i fatti per dipingere la Germania come vittima e non aggressore. Allo stesso modo, l’Unione Sovietica nel 1968 utilizzò agenti sotto copertura per orchestrare disordini e provocazioni in Cecoslovacchia, fornendo a Brezhnev il pretesto per invadere e soffocare la Primavera di Praga.

Neanche le democrazie occidentali sono immuni da episodi simili o tentazioni del genere. Operazione Northwoods, ad esempio, fu il nome di un piano segreto proposto nel 1962 da ambienti del Pentagono all’indomani della Baia dei Porci: l’idea era di inscenare attacchi terroristici contro obiettivi americani (anche uccidendo cittadini) per poi attribuirli al regime castrista cubano, così da giustificare un’invasione di Cuba. Il presidente Kennedy bocciò sdegnato il piano, ma il solo fatto che fosse stato elaborato illustra quanto potentemente un false flag venga percepito come strumento per compattare l’opinione pubblica. Nel 1964, durante la guerra del Vietnam, vi fu il famigerato incidente del Golfo del Tonchino: gli Stati Uniti denunciarono due attacchi da parte di motosiluranti nordvietnamite contro cacciatorpediniere USA. Il secondo attacco, quello decisivo per ottenere dal Congresso i pieni poteri di guerra, fu in seguito messo in dubbio: probabilmente non avvenne affatto o fu il frutto di errori radar, ma all’epoca fu presentato come un’aggressione deliberata. In altre parole, il Tonchino funzionò come casus belli quantomeno esagerato o frainteso, e servì a giustificare l’escalation americana in Vietnam. Ancora, più vicino a noi, c’è il caso delle armi di distruzione di massa in Iraq: nel 2003 l’amministrazione statunitense presentò prove (poi rivelatesi false o infondate) sull’esistenza di arsenali chimici e biologici di Saddam Hussein, usandole per persuadere l’opinione pubblica interna e alleata della necessità di invadere l’Iraq. È stato definito “il false flag più clamoroso di tutti”, perché basato su un pretesto rivelatosi totalmente inesistente. La famosa immagine del Segretario di Stato Colin Powell alle Nazioni Unite, con una provetta agitata a simboleggiare l’antrace iracheno, resta un monito di come persino le democrazie possano cadere vittima (o artefici) di narrazioni fuorvianti per legittimare una guerra.

Tornando all’Europa e alla Russia, entrambi i fronti hanno accusato l’altro di possibili operazioni False Flag nel contesto del conflitto ucraino, e non senza fondamenti. Nei giorni precedenti all’invasione del febbraio 2022, Stati Uniti e Regno Unito avevano lanciato l’allarme: Mosca starebbe preparando una provocazione “false flag” per giustificare l’attacco. A supporto di questa tesi, venne citato l’episodio del bombardamento di un asilo nell’Est ucraino, in territorio controllato dai separatisti: i media russi attribuirono l’attacco a Kiev, mentre Londra e Washington lo indicarono come una messinscena orchestrata dai filorussi per creare il casus belli.

Ma anche il governo ucraino e l’apparato mediatico di Kiev hanno più volte usato la leva della propaganda e talvolta hanno diffuso notizie non verificate o manipolate, specialmente per ottenere sostegno emotivo e militare da parte dell’Occidente. Alcuni episodi pur rappresentando tragedie umane, sono stati seguiti da una gestione opaca delle prove, da indagini non sempre indipendenti e da accuse immediate alla Russia senza contraddittorio. L’uso frequente di narrazioni cariche di pathos, immagini di bambini feriti e appelli a emozioni forti è parte di una strategia comunicativa che, sebbene comprensibile in tempo di guerra, non è immune da strumentalizzazioni. Inoltre, Kiev ha usato con disinvoltura alcuni elementi della guerra informativa: dalla diffusione di video propagandistici costruiti con toni eroici e hollywoodiani (come quelli del presidente Zelensky o del ministero della difesa), alla sistematica censura di giornalisti interni critici e oppositori politici, spesso liquidati come “filorussi”.

Il risultato è un gioco di specchi incrociato, dove entrambe le parti – Russia e Ucraina – utilizzano la leva della disinformazione, dell’ambiguità e delle provocazioni per orientare la narrazione globale. Le accuse reciproche di false flag, bombardamenti deliberati su civili, uso di armi proibite e sabotaggi sono ormai routine. In questo contesto, per l’opinione pubblica internazionale, distinguere tra verità, propaganda e finzione diventa sempre più difficile. E proprio questo clima opaco rappresenta il terreno più fertile per una possibile escalation incontrollata, spinta non dalla realtà dei fatti, ma dalla percezione distorta che ne viene data.

In sintesi, la possibilità di eventi traumatici o false flag aleggia come un fattore imprevedibile. Le società europee temono già spontaneamente un allargamento della guerra; se malauguratamente un incidente grave colpisse uno Stato NATO, è verosimile che l’indignazione pubblica potrebbe montare a favore di una risposta militare, proprio come fecero gli americani nel ’41 dopo Pearl Harbor. La grande differenza, oggi, è la consapevolezza diffusa del potenziale distruttivo (anche nucleare) di un conflitto con la Russia, una consapevolezza che funge da potente deterrente emotivo.

Per usare un’immagine più aderente alla situazione attuale, l’opinione pubblica europea somiglia oggi a una diga robusta, costruita a fatica su decenni di pace, memoria storica e diffidenza verso le avventure militari. Le spinte belliciste non mancano: governi che invocano il riarmo, pressioni atlantiche per un coinvolgimento sempre più profondo, una comunicazione spesso polarizzata. Eppure la diga tiene. E forse proprio le crepe che la attraversano - inflazione, precarietà, sfiducia nei governi, disagio sociale crescente – non la indeboliscono, ma la rafforzano: rendono più forte il rifiuto popolare verso un’escalation che aggraverebbe ancora di più condizioni di vita già difficili. È una forma di resistenza silenziosa ma concreta, che fino a oggi ha impedito alla retorica della guerra di trasformarsi in consenso reale.
Ma una diga, per quanto solida, può cedere a causa di uno shock esterno improvviso. Una “Pearl Harbor europeo”, un attacco inatteso, un’esplosione emotiva, un evento traumatico interpretato come aggressione diretta potrebbe ribaltare l’opinione pubblica in poche ore

Il trauma, se ben strumentalizzato, riesce dove la propaganda fallisce: convince non con la ragione, ma con la paura. Ed è in quel momento che il fronte del “no alla guerra” rischierebbe di franare.

Lo scacchiere geopolitico: USA, Russia, Cina e NATO

Dietro gli umori dell’opinione pubblica si muovono naturalmente le strategie delle grandi potenze e delle alleanze. Comprendere il contesto geopolitico attuale aiuta a dare profondità all’analisi e a smascherare facili narrative unilaterali.

Stati Uniti: La superpotenza americana, lungi dall’isolazionismo del 1941, è oggi pienamente coinvolta, sebbene indirettamente, nel conflitto ucraino. Washington ha assunto il ruolo di principale sostenitore di Kiev, fornendo aiuti militari ed economici su larga scala e coordinando la risposta occidentale. Gli obiettivi dichiarati dagli USA sono stati inizialmente di aiutare l’Ucraina a difendere la propria sovranità e integrità territoriale. Col prolungarsi della guerra, la retorica si è inasprita: già nell’aprile 2022, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin affermò chiaramente che gli Stati Uniti puntavano a “vedere la Russia indebolita al punto da non poter più fare in futuro ciò che ha fatto invadendo l’Ucraina”. In altre parole, la strategia USA mira non solo a sostenere Kiev ma anche a logorare il potenziale bellico russo, un obiettivo condiviso anche da diversi alleati; il ministro della Difesa britannico Ben Wallace stimò nel 2022 che la Russia avesse già perso un quarto della sua forza militare convenzionale grazie alla resistenza ucraina e al supporto occidentale.
Questo fine di “indebolire la Russia” segna un cambio di paradigma rispetto alle prime fasi: significa che persino un’ipotetica cessazione delle ostilità non porterebbe automaticamente alla rimozione delle sanzioni e al disgelo, perché gli Stati Uniti vorrebbero impedire a Mosca di ricostituire rapidamente la propria macchina bellica. Va tuttavia notato che, in parallelo, Washington ha mostrato grande prudenza nel non oltrepassare certe soglie: ha escluso l’invio di truppe sul campo, ha calibrato le forniture di armi evitando inizialmente sistemi a lunghissimo raggio per timore che venissero usati per colpire il territorio russo, e in generale ha tenuto aperto un canale di comunicazione con il Cremlino per scongiurare incidenti diretti. Questa doppia postura, durezza nel sostegno all’Ucraina ma cautela nell’evitare una guerra diretta con Mosca, riflette anche il sentimento dell’opinione pubblica americana, che sebbene molto più favorevole degli europei a “mostrare i muscoli” (ricordiamo che il 56% degli statunitensi si dichiarava disposto a difendere un alleato NATO da un’aggressione russa già nel 2015), è comunque preoccupata dal rischio di una guerra mondiale. Non a caso, i dibattiti interni negli Stati Uniti si sono profondamente modificati dopo la vittoria di Donald Trump alle presidenziali del novembre 2024. Con il suo ritorno alla Casa Bianca, la linea politica di Washington è mutata in modo netto: il sostegno militare a Kiev è stato ridimensionato, le forniture rallentate o rese condizionate da aperture diplomatiche, e la Casa Bianca ha iniziato a premere per un congelamento del conflitto, se non per una vera trattativa. Il nuovo corso trumpiano riflette la visione più volte ribadita dal tycoon durante la campagna elettorale: “Questa non è la nostra guerra. Va risolta subito, o gli alleati se ne assumano la responsabilità”. Il Congresso, diviso ma in parte allineato sul nuovo asse repubblicano, ha lasciato che questa impostazione si affermasse, nel nome di una rinnovata priorità agli affari interni e alla competizione con la Cina.
L’atteggiamento ambiguo verso la Russia, mai apertamente conciliante ma nemmeno esplicitamente ostile, ha ridotto l’unità del fronte occidentale e messo in allarme i partner europei, che ora si trovano a dover riconsiderare le proprie strategie in uno scenario meno garantito dalla protezione americana. La NATO, pur formalmente coesa, è entrata in una fase di ridefinizione strategica. Per il momento, gli Stati Uniti mantengono una presenza militare nei Paesi dell’Est e continuano a finanziare alcune iniziative a supporto dell’Ucraina, ma senza più la centralità operativa che avevano avuto sotto Biden. Si delinea così un nuovo paradigma: meno coinvolgimento americano diretto, più pressione sugli europei affinché “si assumano le proprie responsabilità difensive”. In questa cornice, il rischio di una guerra percepita come europea e non più atlantica si fa più concreto. E con esso, la pressione sulle opinioni pubbliche del Vecchio Continente.

Russia: Dal canto suo, la Russia di Vladimir Putin affronta la guerra in Ucraina come una questione esistenziale, almeno nella narrativa proposta al proprio popolo. Mosca ha giustificato l’“operazione militare speciale” con una serie di argomenti: la presunta necessità di “denazificare” l’Ucraina, di proteggere le popolazioni russofone del Donbass, e soprattutto di fermare l’espansione ostile della NATO ai confini russi. Quest’ultima motivazione risuona particolarmente con la mentalità diffusa dall’apparato propagandistico: secondo i media controllati dallo Stato, la Russia sarebbe in realtà in guerra con tutto l’Occidente, impegnata in una lotta difensiva contro il progetto egemonico americano. Questo discorso ha avuto un certo successo interno: nonostante perdite ingenti e difficoltà militari, l’80% dei russi continua a dichiarare supporto per “le azioni dell’esercito russo” in Ucraina sebbene tale consenso sia in parte forzato dalla scarsezza di voci critiche nei media e dal rischio di repressione per i dissidenti. La propaganda ha risvegliato in Russia un sentimento patriottico-imperiale, presentando il conflitto come la prosecuzione storica della Grande Guerra Patriottica (la Seconda guerra mondiale) contro un nemico nazista e come la difesa della sovranità russa minacciata dalla realtà di un accerchiamento NATO. In parallelo, il governo russo ha fatto leva anche sul revanscismo post-sovietico: l’idea di riportare l’Ucraina nella sfera d’influenza russa o addirittura ricostituire una sorta di “Russkiy Mir” (Mondo russo) con i territori slavi orientali, soddisfa una parte dell’elettorato nazionalista. Non a caso, all’inizio delle ostilità, il Cremlino contava su una guerra lampo vittoriosa che consolidasse il regime con un trionfo patriottico. La realtà si è rivelata ben più complessa di quanto sperato dai comandi russi, e in seguito anche da quelli ucraini e dai loro alleati. Il primo anno la straordinaria resistenza di Kiev, supportata dall’Occidente, riuscì a fermare l’avanzata russa su più fronti infliggendo alcune sconfitte tattiche e costringendo Mosca a mobilitare centinaia di migliaia di riservisti; il conflitto, però, ha progressivamente assunto i tratti di una guerra di logoramento, in cui l’iniziativa è ormai passata in larga parte alle forze russe.
Nel corso del 2024 e nei primi mesi del 2025, Mosca ha riconquistato ampie porzioni di territorio lungo l’asse del Donbass e verso Kharkiv, mentre Kiev, a corto di uomini, munizioni e rifornimenti, fatica sempre più a difendere il fronte. Il colpo più duro, tuttavia, è arrivato sul piano strategico: l’offensiva lanciata dall’Ucraina verso la regione russa di Kursk – tra agosto e novembre 2024 – si è rivelata un autogol operativo. Presentata come una dimostrazione di forza, ha in realtà comportato l’impiego di forze d’élite e risorse già scarse, sottraendole ad altri teatri. Dopo un iniziale sfondamento e la temporanea occupazione di alcune località, le truppe ucraine sono state respinte e costrette al ritiro, lasciando il controllo dell’area nuovamente alla Russia. Nonostante il sostegno continuo, almeno fino al cambio di rotta americano nel 2025, la superiorità numerica, industriale e logistica della Russia ha cominciato a pesare in modo determinante. Le perdite ucraine sono ormai pesanti, e il morale della popolazione, seppur ancora fiero e dignitoso, riflette la stanchezza di una guerra che sembra non offrire più prospettive concrete di vittoria. La guerra, inizialmente narrata come una battaglia tra Davide e Golia, si è trasformata in una lenta erosione, dove l’Occidente osserva con crescente disagio un conflitto che rischia di sfuggire completamente di mano.
Oggi, parte della società russa appare in una sorta di consenso rassegnato: la maggioranza evita di pensare alla guerra oltre la propaganda, appoggia a parole il governo ma senza entusiasmo genuino, mentre minoranze critiche covano malcontento in silenzio. Il governo russo, dal canto suo, ha bisogno che la narrazione dell' assedio occidentale rimanga credibile per tenere unita la popolazione e giustificare i sacrifici. Sul piano strategico, la Russia mira a prolungare la guerra sperando in un’erosione del sostegno occidentale a Kiev e nel frattempo a consolidare le conquiste territoriali almeno nel Donbass e lungo la costa del Mar d’Azov. Allo stesso tempo, cerca sponde internazionali alternative: ha rinsaldato i rapporti con Paesi come l’Iran (che fornisce droni) e la Corea del Nord (munizioni), oltre naturalmente a puntare sull’alleato più importante, la Cina.

Cina: Il ruolo di Pechino è fondamentale e complesso. La Cina ufficialmente mantiene una posizione neutrale nella crisi ucraina, invocando il dialogo e l’integrità territoriale ma senza condannare apertamente l’aggressione russa. In pratica, Pechino appoggia Mosca in modo misurato, vedendo nella Russia un partner strategico per controbilanciare l’egemonia statunitense. Dal punto di vista di Xi Jinping, la guerra in Ucraina offre sia rischi sia opportunità. Tra i rischi: destabilizza l’economia mondiale (di cui la Cina è grande beneficiaria), rafforza la coesione occidentale (NATO più unita, possibili ripercussioni in Asia), e pone dilemmi sul principio di sovranità nazionale (Pechino tipicamente difende la non-ingerenza, avendo però a sua volta mire su Taiwan). Tra le opportunità: la distrazione degli Stati Uniti sul fronte europeo potrebbe distogliere risorse dal teatro indo-pacifico, e l’isolamento della Russia spinge Mosca tra le braccia cinesi, rendendola un junior partner che vende energia e materie prime a sconto a Pechino. Finora la Cina ha fornito un sostegno soprattutto economico-diplomatico: ha aumentato gli acquisti di petrolio e gas russi (attutendo l’effetto delle sanzioni occidentali), ha partecipato ad esercitazioni militari congiunte, e ha fatto scudo in sedi ONU per evitare condanne troppo dure a Mosca. Non risulta invece che abbia inviato armi letali su larga scala, in parte per evitare sanzioni su di sé e in parte perché calibrando l’aiuto può mantenere una leva sulla Russia. La strategia di Pechino sembra essere: aiutare abbastanza la Russia affinché non crolli (per non far vincere l’Occidente), ma non legarsi a tal punto da subirne le sorti o compromettere i propri interessi globali. Xi ha proposto un piano di pace in 12 punti, giudicato però più favorevole a Mosca (non prevede un ritiro russo totale) e accolto freddamente dall’Occidente. In sostanza, la Cina gioca su un equilibrio: retoricamente si presenta come mediatrice responsabile (cosa gradita a una parte dell’opinione pubblica mondiale, soprattutto nel Sud globale stanco della guerra), ma sostanzialmente vuole che la Russia non perda e che gli Stati Uniti escano logorati dallo scontro. Questo atteggiamento cinese introduce un ulteriore elemento di cautela per l’Europa: nell’ipotesi di un conflitto diretto NATO-Russia, la posizione di Pechino sarebbe un’incognita pesantissima. Difficile immaginare la Cina impegnarsi militarmente contro la NATO – sarebbe contro i suoi interessi – ma potrebbe intensificare l’appoggio a Mosca fornendo tecnologia e finanze, rendendo il confronto ancor più globale. Inoltre, c’è l’interrogativo Taiwan: se l’Occidente risultasse indebolito o distratto dalla guerra in Europa, la Cina potrebbe tentare di risolvere a suo favore la questione di Taipei, aprendo un secondo fronte mondiale. D’altro canto, un esito disastroso per la Russia in Ucraina potrebbe rendere Putin dipendente da Xi al punto da divenire quasi un vassallo: un’eventualità che in prospettiva preoccupa anche alcuni strateghi russi, storicamente timorosi dell’egemonia cinese in Asia.

NATO ed Europa: Infine, uno sguardo alla NATO e all’Unione Europea, le due strutture cardine dell’Occidente. La guerra in Ucraina ha revitalizzato la NATO, che negli ultimi anni alcuni (Trump incluso) avevano definito “obsoleta”. L’Alleanza Atlantica si è riscoperta essenziale per la deterrenza: ha rafforzato il fianco est con nuovi gruppi tattici di presenza avanzata, ha ricevuto le domande di adesione di Svezia e Finlandia, e in generale ha visto i membri aumentare le spese militari. Il caso più emblematico è la Germania, che ha invertito 70 anni di parsimonia strategica lanciando un fondo speciale da 100 miliardi di euro per riarmarsi dopo l’invasione russa. L'eleziona alla cancelleria di Friedrich Merz, decisamente interventista, ha accellerato questa corsa agli armamenti e fomentato una escalation di cui è difficile prevedere le conseguenze nel breve e medio periodo. Tuttavia, permangono differenze interne: gli alleati dell’est chiedono linee dure (Polonia e Stati baltici hanno addirittura sollecitato maggior coinvolgimento NATO e meno remore sulle armi avanzate a Kiev), mentre alcune nazioni occidentali, pur ferme nel condannare l'invasione russa, cercano di tenere aperto qualche spiraglio diplomatico. La coordinazione NATO finora è stata piuttosto efficace nel sostenere l’Ucraina senza entrare in guerra: ad esempio, è stata respinta l’idea ucraina di una no-fly zone (che avrebbe implicato abbattere aerei russi, quindi scontro diretto), preferendo invece fornire sistemi contraerei affinché Kiev si difendesse da sola. L’Alleanza mantiene anche un atteggiamento difensivo: ha chiarito che interverrà militarmente solo se un proprio membro sarà attaccato (Articolo 5), ma non per difendere il territorio non-NATO dell’Ucraina. Questa linea rossa è ben compresa dall’opinione pubblica europea: come visto, i cittadini accetterebbero un intervento bellico quasi soltanto se un alleato venisse colpito. Nonostante la prudenza, all’interno della NATO permane la convinzione, più ideologica che strategica, che la posta in gioco in Ucraina riguardi la credibilità complessiva dell’Alleanza. L’idea diffusa, soprattutto tra i governi dell’Europa orientale, è che una vittoria russa possa rappresentare un precedente pericoloso, anche se mancano evidenze concrete di un progetto espansionista russo oltre i confini ucraini. I timori espressi da Polonia, Stati baltici e Finlandia, legittimi alla luce della storia, sono stati amplificati in chiave preventiva, alimentando l’idea che l’Ucraina sia l’ultima linea difensiva dell’ordine europeo. Tuttavia, voci più critiche all’interno della stessa NATO riconoscono che la Russia, logorata dalla guerra in corso e impegnata militarmente su un fronte vastissimo, non dispone né delle forze né dell’interesse politico per affrontare direttamente altri Paesi membri dell’Alleanza. In questo senso, la narrazione della “minaccia diretta alla sicurezza europea” rischia di trasformarsi in una giustificazione permanente per l’escalation e il riarmo, più che in una reale valutazione del rischio.

Quanto all’Unione Europea, la guerra ha mostrato i suoi punti di forza e debolezza. L’UE si è mossa con notevole unità sulle sanzioni economiche contro la Russia e sull’assistenza finanziaria e umanitaria all’Ucraina. Ha anche compiuto svolte storiche, ad esempio finanziando per la prima volta la fornitura di armi (attraverso il Fondo europeo per la pace). Tuttavia, l’Europa continua ad affidarsi alla NATO, e quindi agli Stati Uniti, per l’aspetto militare difensivo. In altre parole, l’UE da sola non costituirebbe un deterrente credibile contro la Russia senza il decisivo supporto americano. Questo squilibrio ha riaperto discussioni sulla necessità di una “difesa europea” più autonoma, ma sono prospettive a lungo termine. Nel breve periodo, l’Europa ha dovuto soprattutto affrontare il contraccolpo economico del conflitto: per l’Italia e la Germania, fortemente dipendenti dal gas russo, l’inverno 2022-23 è stato una prova critica, superata grazie a scorte, piani di risparmio energetico e forniture alternative (Algeria, LNG da USA e Qatar, ecc.). L’adattamento c’è stato, ma non è indolore: bollette aumentate sensibilmente, crisi diffusa, inflazione e timori di recessione hanno creato un giustificato malcontento. Questo evidente impoverimento economico non ha però finora scalfito il consenso dei governi alleati rispetto al sostegno all’Ucraina, indipendentemente dalla volontà dei cittadini.
Di nuovo, un evento traumatico potrebbe cambiare il quadro: se la guerra, ad esempio, scatenasse una crisi umanitaria ancor più grave (milioni di profughi in più) o un incidente nucleare (tipo un disastro alla centrale di Zaporizhzhia, o peggio l’uso di un’arma nucleare tattica), l’opinione pubblica europea potrebbe oscillare tra due estremi: da un lato una richiesta di maggiore intervento per “farla finita” con l’aggressore, dall’altro un’ondata di panico che porti a invocare compromessi immediati a qualunque costo pur di fermare l’escalation. Questa polarizzazione sarebbe terreno fertile per la disinformazione: chi spinge per la linea dura potrebbe accusare ogni appello alla tregua di essere complicità col nemico; viceversa, chi preme per la pace a ogni costo potrebbe vedere in ogni notizia di atrocità un’esagerazione “bellicista” o, appunto, un possibile false flag orchestrato per prolungare la guerra.

Oggi: un equilibrio precario tra memoria storica e incognite future

Confrontando l’America pre-Pearl Harbor e l’Europa attuale di fronte alla Russia, emergono paralleli e differenze significative. In entrambi i casi, l’opinione pubblica iniziale è caratterizzata dalla riluttanza verso la guerra: gli americani del 1940 e gli europei del 2025 condividono il desiderio di evitare un bagno di sangue, confidando magari che le minacce possano essere contenute senza coinvolgerli direttamente. Allo stesso modo, in entrambi i contesti la distanza geografica (apparente) del conflitto alimenta una percezione di sicurezza che può rivelarsi illusoria: gli Stati Uniti si credevano al sicuro dietro gli oceani prima di Pearl Harbor, molti europei fino all’ultimo hanno creduto impossibile una guerra su larga scala nel XXI secolo, finché non si sono svegliati il 24 febbraio 2022 con i carri armati russi che varcavano i confini ucraini.

Tuttavia, vi sono anche differenze importanti. L’Europa odierna ha memoria della guerra sul proprio territorio e del costo immane che comporta. Questa memoria storica dell’orrore di due guerre mondiali, dei genocidi, delle città rase al suolo, funge da anticorpo potente contro l’entusiasmo bellicista. Nel 1941, paradossalmente, la società americana non aveva mai provato un attacco esterno su vasta scala sul suo suolo (solo Pearl Harbor, territorio allora non ancora stato, fu il primo trauma diretto). Oggi, invece, quando si evocano scenari di guerra con la Russia, la gente comune in Europa sa che significherebbe molto probabilmente missili sulle città, colonne di profughi, e nel peggiore dei casi funghi atomici all’orizzonte. Questa consapevolezza fa sì che l’inerzia pacifista sia forse più radicata e resiliente di quanto non fosse l’isolazionismo americano che infatti evaporò in un giorno. Ciò detto, la manipolabilità dell’opinione pubblica sotto shock resta un fattore umano universale. La paura e l’orgoglio ferito possono prevalere sulla razionalità anche nelle opinioni pubbliche più mature. Se domani, non sia mai, si verificasse un massacro di civili europei attribuito (a ragione o torto) alla Russia, è plausibile che molte voci fin qui caute si unirebbero al coro di chi chiede ritorsione e guerra aperta. Sapendolo, i governi hanno il dovere di muoversi con prudenza per evitare questi scenari e i cittadini, dal canto loro, dovrebbero coltivare uno spirito critico, ricordando che in ogni guerra la prima vittima è la verità.

In definitiva, viviamo un equilibrio precario. Da un lato la maggioranza della popolazione, italiana ed europea, ripudia l’idea di una guerra con la Russia, la teme e la vorrebbe scongiurare in ogni modo. Dall’altro lato, la stessa popolazione, qualora percepisse di non avere alternativa (perché aggredita, o spaventata da un evento traumatico), potrebbe capovolgere il proprio orientamento praticamente dall’oggi al domani, così come accadde agli americani nel 1941. La lezione che possiamo trarre dalla storia è duplice: primo, l’importanza di gestire con cura la comunicazione e la verità in tempo di crisi, per evitare che menzogne o provocazioni costruite (false flag o semplicemente disinformazione) ci trascinino dove non vorremmo andare; secondo, la necessità di prepararsi psicologicamente anche allo scenario peggiore, affinché se mai dovesse materializzarsi uno shock simile, si possa reagire con lucidità e senza perdere i valori fondamentali.

L’augurio, naturalmente, è che non si debba mai verificare un “Pearl Harbor europeo”. La diplomazia, per quanto oggi sembri incapace di fermare i conflitti, rimane essenziale per evitare che la guerra in Ucraina sfugga di mano. Nel frattempo, è compito del giornalismo e della società civile mantenere uno sguardo critico e disincantato: sostenere la ricerca della pace e della giustizia, ma senza farsi accecare né dall’odio bellico né dalle sirene di false narrative. Solo con questa consapevolezza complessa l’opinione pubblica potrà rimanere padrona di sé stessa, evitando di oscillare tra ingenuo pacifismo e bellicismo improvviso, e spingendo i propri leader verso soluzioni che garantiscano sicurezza senza tradire i principi di umanità e verità.

Fonti:

  • Sondaggi Gallup sull’opinione pubblica USA 1939-41.

  • The National WWII Museum – “The Great Debate” (2019).

  • BBC News – “Poll finds NATO’s Europeans wary of Russia confrontation” (2015).

  • Kyiv Independent – “Poll: Ukraine among countries with lowest nuclear threat fear” (2024).

  • HuffPost Italia – “Il bombardamento all’asilo ucraino e le false flag operation” (18/2/2022).

  • Treccani – “L’attacco di Gleiwitz, il casus belli della Seconda guerra mondiale” (30/8/2019).

  • InsideOver – “Stati Uniti e Russia: una lunga storia di false flag” (11/2/2022).

  • The Guardian – “Pentagon chief: we want to see Russia weakened” (25/4/2022).

  • The Guardian – “Support for Ukraine ‘until it wins’ falls in W. Europe” (26/12/2024).

  • IEP @ Bocconi – “What do Italian and European voters think of EU policies towards Ukraine?” (17/5/2024).

Carlo RECALCATI

Foto di Carlo RecalcatiClasse 1968, studia Fisica a Milano e Antropologia culturale a Bordeaux (Francia).
Oltre alla sua attività professionale, ha instaurato collaborazioni con associazioni, case editrici e riviste, contribuendo con la sua esperienza e il suo know-how in diversi ambiti.
Da sempre appassionato di viaggi, tecnologia, storia e filosofia ha fondato e diretto diverse associazioni di settore e scritto numerosi articoli spaziando dalla ricerca archeologica all'intelligenza artificiale.
Nel 1985 è stato il più giovane membro del Mensa Italia con un QI di 154 sulla Scala di Cattel, pari a 134 Wechsler (WAIS-IV).

Altri articoli dello stesso autore